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Report finanziario "CLASSIC" 06 Aprile 2007

LA BORSA VA, L’ECONOMIA MENO

IL CASO TELECOM, OVVERO IL TRIONFO DEL MERCATO PARASSITARIO ED IL FALLIMENTO DELLA DEMOCRAZIA
In questi giorni il “caso Telecom Italia” sta occupando le pagine dei quotidiani e la mente dei politici come poche altre questioni. Il “pesce d’aprile” che Marco Tronchetti Provera ha giocato agli italiani, iniziando a trattare la vendita del pacchetto di controllo del monopolista telefonico italiano nientemeno che ad una cordata di americani (AT&T) e messicani (American Moviles) suscita riflessioni e polemiche.
Siccome sono stato invitato da qualche email ad esprimere anche le mie, mi unisco alla babele dei commentatori.
Innanzitutto vorrei chiarire l’aspetto tecnico, che non è secondario, specialmente per rispondere alla domanda: allora Telecom andrà a 2,80 euro?
Quella che sta facendo la cordata americana non è un’OPA ma una trattativa privata con l’azionista di controllo per un pacchetto del 66% di Olimpia, la società che controlla il 18% di Telecom ed in questo modo, dato che oltre il 70% del capitale di Telecom è in mano al mercato, esprime la maggioranza del Consiglio di Amministrazione. Se andrà in porto non comporterà obbligo di OPA perché per scattare l’obbligo occorrerebbe il passaggio di almeno il 30%.

Pertanto non è affatto detto che se il Tronchetti riesce a spuntare dagli americani una valutazione di Telecom di circa 2,82, tale valutazione si trasformi in prezzo di borsa. La quotazione di Telecom sta salendo in questi giorni, pur rimanendo ancora oltre il 15% inferiore a tale prezzo, perché il mercato sta valutando le prospettive future della società e la possibile bagarre che l’evento può scatenare.

I dati certi sono:
1) qualcuno offre 2,82 per una società che prima dell’annuncio quotava 2,13, cioè è disposto a pagare un premio di maggioranza di oltre il 30%;
2) Il cambio di proprietà potrà dare valore oppure toglierne. Dipende dalle strategie, che nessuno conosce, tranne gli interessati, che i nuovi “padroni” vorranno attuare. Se l’ingresso in Telecom viene fatto in ottica predatoria, per sfruttare la preda a vantaggio del compratore (come voleva essere l’acquisto di Alitalia da parte di Air France) non è detto che si trasformerà in un bene per gli azionisti di minoranza e probabilmente nemmeno per il resto del paese. L’esperienza con l’italiano Tronchetti ha insegnato proprio questo.
3) L’evoluzione futura della partita ha molte possibili varianti, anche perché il Governo ha manifestato una certa apprensione e sollecitato informalmente l’impegno del mondo bancario italiano per evitare la caduta della Telecom in mani straniere. Per contrastare il passo degli americani potrebbe essere lanciata un’OPA sul restante capitale, ma sarebbe certamente meno costoso lo sfruttamento da parte di acune banche italiane della clausola del patto di sindacato di Olimpia, che consente un diritto di prelazione sulla quota di Olimpia che Pirelli volesse cedere, al medesimo prezzo offerto da altri acquirenti.

Una terza possibilità, che spiegherebbe i grossi volumi scambiati in borsa in questi giorni, sarebbe quella di rastrellare sul mercato una quota che consentisse di far andare in minoranza Olimpia all’assemblea che il 16 aprile eleggerà il CDA. Basterebbe superare il 18% per fare lo sgambetto al Tronchetti. E’ dubbio infatti che gli americani pagherebbero un premio di maggioranza per non avere la maggioranza. Per cui l’operazione potrebbe saltare.
Tutte queste manovre hanno lo scopo di far risparmiare, per cui non vedo molto probabile l’arrivo del titolo in Borsa ai prezzi che gli americani lo valutano.
Detto questo vorrei ancora aggiungere qualche considerazione sui temi caldi che l’evento ha suscitato.

E’ tornata di moda la discussione sul concetto di “italianità”, tanto caro al presto dimenticato ex governatore Bankitalia Antonio Fazio e si rivede la lotta tra i paladini del mercato e i “comunisti” nostalgici delle imprese pubbliche.
Si suppone che la proprietà in mani italiane sia di per sé una garanzia per l’interesse nazionale.
Personalmente non sono affatto d’accordo. Gli ultimi anni di vita societaria di Telecom hanno dimostato quanti danni possano fare le mani italiane se non vengono regolamentate in modo efficace. Dapprima, in nome del “mercato” e della necessità di far cassa, è stato ceduto ai privati non solo il servizio telefonico ma anche la rete su cui passano voce e dati e che è diventata il centro nevralgico dell’economia ed anche della sicurezza del paese. Poi, sempre in nome del mercato, è stata consentita senza battere ciclio dal Governo D’alema (ma non doveva essere un pericoloso ex cominista?) la scalata predatoria dei “capitani coraggiosi” Colaninno e Gnutti, che hanno acquisito Telecom, per rivenderla dopo 2 anni al miglior offerente (Tronchetti) e senza preoccuparsi minimamente di sviluppo e miglioramento dell’efficienza del servizio.

L’era Tronchetti Provera ha dimostrato poi la carenza di imprenditorialità, segnata dal calo progressivo del valore del titolo, a dispetto dell’andamento dei suoi competitors internazionali, che hanno saputo in questi anni agganciarsi al trend positivo dei mercati e non a caso ora si presentano sul mercato come cacciatori, mentre a Telecom non resta che rassergnarsi al ruolo di preda.
Dal punto di vista degli interessi collettivi, il nostro paese è molto indietro nelle classifiche internazionali che misurano il “digital divide”, cioè la separazione tra chi può accedere alla banda larga ed ai servizi annessi e chi questa possibilità non ce l’ha.

Non è un mistero che l’introduzione della nuova tecnologia Wi-max, che consentirebbe una diffusione capillare della banda larga a basso prezzo, sia ostacolata dalla Telecom, che sarebbe danneggiata nel suo monopolio ADSL, oltre che dal ministero della Difesa che tarda a liberare le frequenze necessarie. E’ altrettanto noto quanto sia difficile passare da un contratto Telecom a quello di un altro operatore virtuale e quanto l’assistenza sulla linea ADSL, che resta di competenza Telecom, subisca ritardi ed inefficienze a carico dei “non clienti” Telecom. Inoltre il sistema tariffario italiano del traffico voce è ritenuto tra i più penalizzanti per il consumatore, se confrontato con quello degli altri paesi avanzati.

Dal lato della sicurezza nazionale, le recenti inchieste sui casi di spionaggio telefonico hanno mostrato quanto invece tale pratica illegale sia stata organizzata in modo efficiente per tutelare gli interessi privati della proprietà a danno di un bene pubblico (la privacy di migliaia di personaggi pubblici e non).
Intendo perciò ribadire che il concetto di “italianità” non è un valore e di per sé non garantisce nulla.
Il ragionamento da fare a mio parere è un altro. Innanzitutto bisogna decidere se il sistema telefonico e le telecomunicazioni siano un settore caratterizzato da un “interesse pubblico”. Io ritengo di sì, come la quasi totalità dei commentatori.

Se è così, allora occorre che l’interesse pubblico possa prevalere su quello privato in caso di conflitto. La via maestra (so che ora verrò catalogato tra i “comunisti”) passa necessariamente per la proprietà pubblica della rete, intesa come l’hardware del sistema di telecomunicazione. Non dei servizi, cioè il software, che anzi dalla proprietà pubblica della rete e dalla pari possibilità per tutti gli operatori di accedervi trarerrebbero benefici concorrenziali.
A nessuno viene il dubbio che sia questo il motivo per cui in Francia e Germania i servizi strategici sono ancora di proprietà pubblica?

Se ciò che è pacifico altrove per governi di destra viene considerato troppo ardito dal nostro di centro-sinistra, in questo periodo di idolatria per il mercato, ci dovrebbe essere almeno un sistema di regole (da far rispettare, non solo da scrivere per farci su convegni e basta) che garantisca l’espropriazione di alcune “libertà” d’impresa quando queste confliggano con l’interesse collettivo.
Chi debba determinare quale sia l’interesse collettivo, piaccia o meno, in una democrazia è il governo in quanto espressione della sovranità popolare.
Altrimenti non ci possiamo lamentare se il Tronchetti, con il meccanismo delle scatole cinesi e dei controlli a cascata (Camfin controlla Pirelli col 25%, Pirelli controlla Olimpia con l’80%, Olimpia controlla Telecom con il 18%), rischiando pochissimo denaro, può disporre a piacimento di un servizio pubblico, con la possibilità di fare il bello ed il cattivo tempo anche su questioni nevralgiche per la sicurezza nazionale.

Vedere Prodi che ha paura di esprimersi sulla vicenda e l’opposizione che intima al governo di non immischiarsi in faccende di mercato fa accapponare la pelle a chi crede ancora nel sistema democratico. Se il Governo non si occupa di questo, qualcuno mi può spiegare perché paghiamo tanta gente? Per gestire Vallettopoli?
Un tempo si giustificava l’intervento dello Stato nell’economia con il “fallimento del mercato” cioè con la necessità di contrastare situazioni in cui l’interesse privato va a confliggere con l’interesse pubblico. Poi è venuta l’era del “meno Stato e più mercato” constatando che le imprese pubbliche sono spesso mal gestite.

Ora stiamo riscoprendo che il mercato se non è regolato e “frenato” può portare a situazioni predatorie a danno dell’interesse pubblico. Questa volta però il tutto viene vissuto come l’inevitabile frutto della globalizzazione. Con un sospiro accettiamo la definizione del mercato come l’arena in cui ogni colpo è consentito nella battaglia tra prede e predatori.
Ma questa una volta era la definizione di “giungla”, non di mercato.

FOCUS MACROECONOMICO

DALL’ECONOMIA SEGNALI DI DETERIORAMENTO, ANCHE SE I MERCATI AZIONARI LI SNOBBANO

Dal fronte dei dati macroeconomici si stanno completando le comunicazioni relative al primo trimestre. Per quasi tutti gli indicatori sono già pubblici i valori relativi a febbraio mentre stanno cominciando ad arrivare quelli di marzo.
Negli ultimi giorni la serie giunta sui mercati non è stata affatto consolante. Il dato definitivo sul PIL americano dell’ultimo trimestre ha intanto fissato il tasso di crescita al 2,5%, rivedendo in positivo la precedente stima del 2,2%. La media di crescita per l’intero 2006 risulta pertanto pari al 3,5% e consente di affermare a chi guarda il dato aggregato che l’economia Usa è ulteriormente cresciuta rispetto al tasso del 3% del 2005. Tuttavia la media, come sempre, nasconde i dettagli, che sono quelli di una prima parte del 2006 a passo di carica con tassi oltre il 4%, seguiti dalla seconda metà dell’anno più vicina al 2 che al 3%. Se poi guardiamo al dettaglio dell’ultimo trimestre, ci accorgiamo che la revisione al rialzo è solo apparentemente positiva, poiché deriva da una revione in positivo delle score e da una riduzione della stima delle importazioni. Sono invece stati ulteriormente rivisti al ribasso gli investimenti delle imprese (-3,1%) e quelli in costruzioni (-19,8%). Un sistema che smette di investire e che vede aumentare le scorte in magazzino non si può certo definire in crescita solida.

A confermare la situazione assai precaria degli investimenti, anche gli ordini di beni durevoli di febbraio hanno deluso. Dopo il crollo avvenuto a gennaio ci si attendeva un rimbalzo, che praticamente non è avvenuto. Così pure la vendita di case nuove, che è scesa anche in febbraio, dopo la revisione al ribasso dei mesi precedenti, ed ha mostrato che la situazione nel settore edilizio è peggiore di quel che si pensava.
Anche la fiducia delle famiglie è ulteriormente scesa, mentre quella dei direttori agli acquisti delle imprese ha mostrato un deciso rimbalzo nell’indice che misura l’area di Chicago, ma un calo in quello generale. Infatti l’indice ISM manifatturiero globale di marzo è sceso a 50,5, un valore assai vicino a 50, che separa aspettative di crescita da quelle di recessione.

Se tutto ciò non basta a rendere l’idea del deterioramento dell’economia USA, aggiungiamo che l’inflazione non ha mostrato quella riduzione che anche la Federal Reserve si attendeva, per cui lo stesso Bernanke, nella sua ultima recente audizione, ha dovuto affermare che essa rimane “spiacevolmente elevata” e rappresenta ancora la principale preoccupazione della Banca Centrale. Detto per inciso, Bernanke, nonostante i recenti dati piuttosto preoccupanti sugli investimenti, ha affermato anche che per ora la debolezza del settore immobiliare e manifatturiero non si è trasferita agli altri settori, anche se un ulteriore rallentamento degli investimenti rappresenta un fattore di rischio verso il basso nelle previsioni di crescita.

Per trovare un dato confortante bisogna ancora una volta rivolgersi alle statistiche sui consumi al dettaglio, che crescono anche in questo periodo, come stanno facendo da parecchi anni e senza sosta.
L’insieme di questi elementi sta facendo rivedere al ribasso le previsioni sul primo trimestre 2007 da parte degli esperti. Il consensus sembra scivolare al di sotto del 2%.
Isomma, appare piuttosto evidente, anche se i mercati azionari al momento lo trascurano, presi dall’euforia delle acquisizioni e dai massimi del 2000 da raggiungere, che l’economia americana sta entrando in una fase piuttosto pericolosa e che i rischi di ritrovarci tra qualche trimestre in sostanziale recessione sono in rapido aumento, a conferma di quel che da mesi l’inversione della curva dei tassi ci sta anticipando.

Prepariamoci quindi a sondare i futuri dati macro alla luce delle novità emerse.
I prossimi giorni, intervallati dalle festività pasquali, presentano comunque qualche dato di rilievo, come le statistiche sul mercato del lavoro (venerdì 6), la Bilancia commerciale, i prezzi alla produzione e la Fiducia dei consumatori (venerdì 13).

Pierluigi Gerbino

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