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Sulle dinamiche del ciclo misesiano

Dalla depressione alla stagnazione

Mises non ha esitazioni nel considerare il ciclo deleterio per l’economia nel suo insieme. È del resto una posizione perfettamente comprensibile, dal momento che per lui il boom non comporta un aumento della produzione, mentre la crisi/depressione si traduce in una riduzione di output.

Egli ritiene altresì che il ciclo resti una caratteristica ineluttabile della vita economica, poiché prima o poi le banche cedono alla tentazione di approfittare delle opportunità di lucro offerte dal signoraggio e finiscono per emettere credito circolante. Mises non nutre eccessiva fiducia nella memoria degli operatori, che dovrebbero mantenere un atteggiamento di assoluta diffidenza nei confronti del sistema bancario e dei titoli di credito da loro offerti in sostituzione della moneta. Invece, poiché la moneta fiduciaria viene introdotta a prezzi scontati (il tasso di interesse ribassato) anche la memoria storica può rivelarsi una barriera vulnerabile. Un altro antidoto preso in considerazione è il free banking,le cui virtù – sempre secondo Mises – possono tuttavia essere vanificate da accordi di cooperazione/clearing all’interno del settore bancario stesso [30].

Sebbene Mises abbia senz’altro ragione nell’affermare che il ciclo è definito dalle diverse velocità con cui i prezzi relativi reagiscono a uno shock (in questo caso l’aumento nella quantità di moneta aggregata), banche, investitori e consumatori non esauriscono l’elenco dei protagonisti di un ciclo economico. Se si rivolge l’attenzione alla dinamica del mercato dei fattori produttivi, la storia dell’ultimo secolo indica che, quando i proprietari dei fattori produttivi assistono al declino più o meno graduale delle remunerazioni reali percepite, non sempre si rassegnano alla disciplina del mercato.

Tentano invece di contrastare il fenomeno e difendere così le proprie rendite[31]. Questo vale naturalmente sia per i gruppi di interesse concentrati, sia per quelli diffusi, ma capaci - per esempio - di influire sul risultato di una tornata elettorale; e spiega la facilità con cui alla fine della crisi (in corrispondenza della quale si ha depressione) si riscontra attività legislativa indirizzata a conferire protezione normativa alle rendite acquisite nei periodi precedenti: regolamentazione del mercato dei fattori, rafforzamento delle barriere all’uscita, privilegi protezionistici a coloro già presenti e attivi sul mercato.

Si può così concludere che durante una crisi tradizionale gli operatori si devono
confrontare con problemi di eccessiva accumulazione, ai quali reagiscono liberando fattori produttivi non più richiesti. Tuttavia, se il governo interviene con provvedimenti atti a rallentare o fermare il declino nei prezzi dei fattori, i produttori - soprattutto se non privilegiati - saranno stimolati a lasciare il capitale fisso inutilizzato o addirittura a cessare l’attività per evitare di subire perdite. È effettivamente quanto si riscontra di frequente nella realtà.

Questo non significa che gli investimenti si riducano a zero, poiché la crisi di per sè non implica scomparsa di capacità imprenditoriale. Significa però che coloro disposti a riprendere a investire – ponendo così fine alla depressione – non lo faranno necessariamente nel Paese ove è stata introdotta la regolamentazione più stringente. Anzi, è probabile che la concorrenza istituzionale faccia sentire il proprio peso e che spieghi come due diverse realtà si evolvono a seguito della fine di un periodo di crisi, che in alcuni casi sfocia in un rilancio, in altri in una depressione (stagnante). In questi ultimi la stagnazione potrebbe in effetti aggravarsi a causa di ulteriori pressioni regolamentatrici. Questo scenario ben si presta peraltro a spiegare anche fenomeni ciclici innescati da shock illusori di origine non monetaria. Si pensi per esempio a un grappolo di innovazioni che danno luogo a un’ondata di ingiustificato ottimismo sulla dinamica della domanda futura.

E si supponga che dopo un certo periodo l’euforia svanisca, la propensione a investire si attenui e con essa la domanda di fattori produttivi. Anche qui, se il governo cede alle pressioni dei rent seekers la crisi si acuisce e il recupero ciclico si trasforma in depressione. Si ha quindi che, in conseguenza di un intervento governativo, una normale variazione del clima congiunturale si trasforma in depressione [32]. Più in generale, qualunque evento - illusorio o no - che viene percepito dagli agenti in modo sequenziale può innescare un ciclo, le conseguenze permanenti del quale dipendono da come le autorità reagiscono quando le varie categorie di agenti cercheranno di mantenere le posizioni di privilegio acquisite nelle varie fasi del ciclo stesso o di evitare i costi dell’aggiustamento (che possono naturalmente comprendere anche quelli del malinvestment misesiano).

Risulta dunque in parte confermato il pessimismo misesiano: né il free banking, né il gold standard sono in realtà sufficienti a soffocare il ciclo sul nascere. Per un verso vi sono infatti altri percorsi - oltre a quello monetario - attraverso i quali il ciclo economico può materializzarsi. Inoltre, non è detto che, alla fine del ciclo, una politica monetaria accomodante non sia preferibile ai danni provocati dal signoraggio inverso. Piuttosto, la storia dimostra che la libertà di scegliere, se necessario anche con i piedi, è la migliore garanzia contro la depressione e la stagnazione. Se dunque si deve trarre da tutto ciò un insegnamento normativo, non resta che auspicare che si approfitti dei periodi di espansione per liberalizzare l’economia e per aumentare il costo di ritornare sulle proprie decisioni.


30 Dopo aver sostenuto l’idea del free banking (in realtà a base aurea), Mises alla fine degli anni Venti contemplò la possibilità di introdurre provvedimenti di regolamentazione da parte di una qualche autorità statale (1928 [2002:151, 175]). In anni successivi opterà invece decisamente per un sistema monetario basato sul gold standard puro.

31 Vale la pena di ricordare che i possessori dei fattori produttivi solo al margine sono indifferenti fra l’entrare nel processo produttivo alla remunerazione data e il rimanerne fuori. I proprietari infra-marginali, invece, sono beneficiari di una quasi-rendita, l’ammontare della quale varia al variare della remunerazione. In altri termini, a fronte di una riduzione nel salario reale per il lavoratore marginale uscire dal mercato del lavoro non comporta sacrificio, poiché il vecchio salario era uguale suo costo opportunità. Lo stesso ragionamento non vale invece per coloro che sarebbero stati disposti a lavorare anche un salario inferiore.

32 Questa tipologia di fenomeni è probabilmente estranea a quella a cui gli Austriaci si riferivano nel primo quarto del secolo scorso. Nondimeno, quanto esemplificato nel testo è del tutto compatibile e coerente con i fondamenti dell’economia austriaca, secondo cui la crescita è spiegata dalle decisioni imprenditoriali dei singoli individui e può essere vanificata dall’intervento governativo.

Dott. Enrico Colombatto

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