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Razionalità e motivazioni affettive

Origine e sviluppo delle motivazioni

Tentare di capire perché lo sviluppo delle motivazioni e della identità sottostante può non essere equilibrato conduce ad esplorare la letteratura di psichiatria e di psicologia clinica. Anche in questo caso, come e forse in misura maggiore di quello della neurobiologia e psicologia sociale e sperimentale, una selezione della letteratura è opportuna, data l’esistenza di diverse scuole di pensiero. Il criterio di selezione è ispirato, oltreché alla rilevanza nelle rispettive comunità scientifiche, alla congruenza con i risultati dei paragrafi precedenti. Gli studi che saranno particolarmente considerati sono quelli di Fagioli e Siegel. La proposta teorica di Fagioli (1971), che si accompagna ad un’ampia prassi clinica, consente di dare una risposta al problema dell’origine e dello sviluppo delle motivazioni. Va osservato che questa proposta è stata formulata prima dei risultati sulle motivazioni di neurobiologia e psicologia che sono stati discussi qui.

L’origine dell’identità umana, sostiene Fagioli, va collocata al momento della nascita, quando si forma l’immagine interna. Il bambino quando nasce si trova ad affrontare una realtà materiale molto diversa da quella dello stato fetale, perché gli stimoli a cui è sottoposto sono nuovi e molto intensi. L’omeostasi dello stadio precedente, in cui veniva garantito automaticamente un equilibrio dello sviluppo del corpo e della vitalità in rapporto con l’esterno, in particolare con il liquido amniotico, alla nascita non c’è più. Questo cambiamento gli stimola simultaneamente una duplice reazione: l’annullamento della nuova realtà materiale, la creazione di una immagine mentale della realtà precedente, vale a dire del suo rapporto con il liquido amniotico.

In altre parole, dalla separazione dal corpo della madre, ha origine nel bambino l’immagine interna di sé in rapporto con l’esterno, la sua capacità di intuire le qualità di un oggetto esterno che gli danno benessere, e la sua capacità di inibire l’immagine di altri oggetti e stimoli esterni che non gli danno benessere. Si può dire che, sulla base della identità primitiva, è nata l’identità inconscia, con le capacità inibitorie e intuitive, e con essa le motivazioni affettive. Essendo completamente dipendente dagli altri esseri umani, il bambino imparerà successivamente che la sua spinta alla ricerca del benessere, che conferma la sua capacità di rapporto con la realtà esterna e dunque la sua identità, può essere soddisfatta nel rapporto interumano.

Infatti, la spinta per soddisfare i suoi bisogni materiali si presenta congiunta alla spinta per soddisfare “l’esigenza di non aver distrutto il proprio Io” (Fagioli 1974:137), in quanto identità in rapporto con gli altri. Se entrambe le spinte vengono soddisfatte, l’identità si rafforza. Se tuttavia la seconda spinta non viene soddisfatta, il bambino inibisce l’immagine del suo rapporto con la realtà esterna e rimane con la motivazione istintiva, con la conseguenza di indebolire la sua identità inconscia, allontanare l’immagine deludente delle persone e attaccarsi alla realtà materiale. Le motivazioni affettive, secondo Fagioli, sono dunque motivazioni che, direttamente o indirettamente, riguardano il sé in rapporto con gli altri. Le motivazioni rivolte alla realtà materiale, incluso l’aspetto materiale delle persone, hanno origine congiunta con le motivazioni affettive.

Se queste vengono deluse, si può innescare uno squilibrio cumulativo delle motivazioni. Queste spiegazioni del problema dell’origine e dello sviluppo delle motivazioni consente ulteriori chiarimenti. Si chiarisce anzitutto che l’indebolimento dell’identità inconscia avviene attraverso una attività inibitoria inconscia che la razionalità non è in grado di governare. Si chiarisce che un’esperienza può essere “assimilata” (Epstein), o che una motivazione estrinseca può essere internalizzata (Ryan e Deci), solo quando viene soddisfatta una motivazione affettiva rivolta, direttamente o indirettamente, al rapporto interumano. Si chiarisce che lo sviluppo non equilibrato delle motivazioni può condurre a quelle forme di addiction intenzionalmente rivolte a indebolire l’identità, piuttosto che a soddisfare una gratificazione materiale immediata come invece suppone l’economia comportamentale.

Il contributo di Siegel (1999) è interessante perché, partendo da un approccio diverso, e prendendo in considerazione una grande quantità di letteratura in varie discipline come la psichiatria, la psicologia clinica e dell’età infantile e la neurobiologia, raggiunge risultati che, in parte, confermano e qualificano quelli precedenti. Siegel assume la prospettiva teorica di psicologia infantile nota come l’approccio dell’attaccamento (Bowlby 1969). Per “attaccamento” intende un sistema innato nel cervello che spinge il bambino a cercare di stabilire una comunicazione con le persone a lui più vicine, tipicamente i genitori.

Lo scopo dell’attaccamento, che dal punto di vista evolutivo garantirebbe al bambino maggiori probabilità di sopravvivenza, è quello di aiutarlo ad apprendere dai genitori le funzioni che organizzano i processi mentali. L’apprendimento ha dei riflessi diretti nel suo cervello, il quale è particolarmente capace in questa età di aprire o di far decadere nuove possibilità di sviluppo della mente attraverso la creazione e il rinforzo di sinapsi o, rispettivamente, attraverso il loro indebolimento e distruzione. Siegel, pur dando all’innatismo un ruolo importante, riconosce che la mente umana elabora sulla base delle percezioni le immagini come “rappresentazioni prelinguistiche” contenenti diverse informazioni, e attribuisce alla capacità affettiva ed intuitiva una importanza prioritaria per lo sviluppo psichico, anche rispetto alla capacità razionale. Sostiene inoltre che non c’è contrapposizione tra emozioni e razionalità nello sviluppo della mente umana, ma al contrario una “integrazione”.

I rapporti interumani presiedono di fatto a questa integrazione, e per questo motivo presiedono anche al benessere dei bambini. Un attaccamento è ‘sicuro’ quando il genitore risponde con la partecipazione del suo stato emotivo ai bisogni materiali e mentali del bambino, stabilendo in tal modo una sintonia interna nella comunicazione. Gli effetti sono evidenti, perché il bambino mostra una particolare capacità di intuire le immagini mentali degli altri, ed una ridotta insicurezza nell’affrontare la realtà esterna. Viceversa, nell’attaccamento ‘normalizzatore’, in cui il genitore cerca di controllare l’emotività, e in quello ‘preoccupato’, in cui invece mostra una emotività esasperata e sconnessa, il bambino perde la capacità di rapportarsi agli altri, e perde la reattività agli stimoli nuovi.

Nell’attaccamento ‘disorganizzato’ il genitore manda segnali contradditori al bambino, inducendolo in condizioni di grave insicurezza. La diversità fra i tipi di attaccamento è confermata nella diversità della configurazione dei siti cerebrali attivati nel bambino. Nell’attaccamento ‘normalizzatore’ in particolare, viene attivata la parte del cervello che solitamente presiede alla logica e al linguaggio. Purtroppo l’attaccamento sicuro non è diffusissimo, ma sembra essere soltanto poco sopra la metà dei casi (Siegel 1999:76).

Diversi tipi di attaccamento dei bambini ai genitori possono dunque determinare la loro capacità di sviluppare le motivazioni affettive. Questo risultato conferisce delle proprietà predittive all’approccio dell’attaccamento, essendo stato messo in evidenza che il tipo di attaccamento e i suoi effetti dipendono dai genitori e non dai figli (Siegel 2001). Va osservato inoltre che, grazie alla plasticità del cervello, c’è la possibilità che esperienze di rapporti interpersonali diversi modifichino lo sviluppo delle motivazioni affettive, nonostante il patrimonio genetico alla nascita e l’impronta dell’attaccamento nell’infanzia.

Prof. Maurizio Pugno

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